L'inappellabile sentenza

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Quando le cesoie si avvicinano
per recidere un fiore,
il ramo rabbrividisce e sembra,
al tempo stesso, che sfugga e si offra.
Il mio corpo ebbe un trasalimento
simile quando parve che arrivasse
l’attimo in cui le invisibili dita
della Morte stessero per cogliermi l’anima.

Le mie forze più non arrischiano
salvare anima e cuore
dal ricordo che per quanto si perda
nei recessi del passato, non conforta
un presente difficile, neppur per un momento.
Le cose andate son ormai dimenticate:
si son come scisse dalla mia vita
lasciandola sola come ogni lacrima.

Troppa luce parve rischiarare
la dinamica dell’impatto,
quando le mie membra frantumate
furono trovate: inerti, private di moto.
Ma è proprio la troppa luce
a dar vita alle ineffabili ombre.
Dieci anni son passati, e correndo,
ma le ombre no, mai rischiareranno.

In coma... Cosa mai sta a significare
tal parola a molti sconosciuta? Io lo so
così come altre vite, ma rare:
da far intendere è proprio
cosa complicata poiché induce
pensare a cosa non di questo mondo e copre
d’angoscia il curioso. Prego
di dimenticare... Ce la farò? Quando?...

Quando la vita soffre pene d’inferno,
si sviluppano misteriosi gemiti nell’ombra
che solamente l’abisso intende...
Venni schiacciato come un insetto
ritrovandomi d’improvviso al cospetto
della Morte; piombai in un coma
che demolì corpo e mente...
essa mi additò come un ladro.

C’era la Morte che spiava quel letto
senza coperte, verde e senza alcova;
Quel ragazzo in pezzi come giovenche
dopo giorni e giorni di fatiche in inverno.
Ma non mi ebbe quel boia maledetto
del mio destino e adesso ancora
non cedo al ricordo del machete
che per quattro mesi gravò sul mio capo.

Di vita n’è già passata
sulla Morte sogghignante: “Sei mio”;
da dieci eterni anni mi ripeto:
“Perché fra tutti toccò proprio a me?”...
la risposta è sempre stata insoddisfatta
e temo che per sempre lo sarà.
In fondo il topo mica trova risposta
alla domanda: “Perché nacqui topo?” ...

Una rigogliosa prosperità era a me riservata ...
e invece caddi in un oblìo
dal quale non è possibile tornare indietro.
Continuo a vivere nel rimpianto poiché
la fortuna non ho saputo che dissiparla
per un errore nato dalla temerità
di quegli anni che mi videro pilota
non in pista e ad accelerare sempre pronto.

Ancor oggi sono adirato
contro il destino e mal disposto
verso le convenzioni sociali
che da dieci anni mi han rinchiuso
in un angolo tetro da qui non v’è
una legittima via d’uscita.
La mia disgrazia avvenne al buio
di occhio umano e oscura resta.

Annichilii i miei sogni in un prato
dove la mano divina non impedì l’urto
quasi mortale e il crollo d’ideali,
fantasie, mete conquistabili: mesto abuso
del destino senza intelligibile perché.
La catastrofe parve essersi riunita
alla sfortuna in un attimo: contro tutti no,
impossibile fu spuntarla, mi ruppi la testa.

Malasorte, dramma e orrore
parvero mescolarsi assieme:
del malefico intruglio io fui il recipiente...
Avvelenato! La disgrazia mi avvelenò
l’esistenza e miracolosa pozione
non è ancora stata trovata per far sì
ch’io ritorni ai vecchi albori
con gamba, braccio e intelletto intatti.

In quei giorni sentivo cantare, eccome!
quei canti angelici e tremendi
che i neonati sentono ancora e la gente
vecchia e sola ode di già. Però
non cedetti neppure a tal tentazione.
La notte eterna non poteva e non riuscì
a strapparmi dai miei terreni amori,
anche se la tomba mi mostrò i suoi anfratti.

A dieci anni di distanza
posso dire di pensarci già meno
all’olocausto delle mie tante virtù:
sacrificio non voluto dall’offerente...
e da chi allora così alto e potente
da decidere sulle sorti di tutti noi?
Dio o Satana? Giustizia o ingiustizia?
Ci fu qualcuno che adottò reticenza?

A cosa serve farsi pur solo una domanda
ora... guardo sento, mi muovo almeno,
ancor posso essere felice e ancor di più:
posso esprimere le mie sofferenze
col sorriso, ora, di chi si diverte
a vivere e che guarda avanti con occhi
e pensieri sereni. Più di prima
amo la vita, quindi perché non far festa?

Le tenebre sgomente del sepolcro
mi si mostrarono con denti digrignati
ma non le accolse il mio viso torvo
lacrimevole, sempre vivo. Passati...
dolori e tribolazioni: mi han sì roso
l’anima e la vita stessa. Attimi,
mille attimi da narrare commosso
ancora e turbato... già da dieci anni.

Verso quel ragazzo sulla moto
si riversarono tanti mali
e menomazioni di questo mondo.
Tanti demoni son scomparsi
proseguendo negli anni. Ma il morso
dei neuroni che perivano, mai
mi mostrerà il dorso:
insensibili sono le disgrazie, i mali.

Il danno non riapre le fauci e profondo
resta lo sfregio sui miei anni.
Ora ho il fiato più corto
di un tempo; son occhiali
a darmi luce. Ma non mi ha tolto
la notte fonda i miei ideali,
anzi, più di prima me ne ritrovo:
è per essi se io son ancora al mondo.

 

 

 

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